18 Ottobre 1859 - Bergson
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18 Ottobre 1859 - Bergson
Mathieu su Bergson
1. Professor Mathieu, qual fu l'atteggiamento di Bergson nei confronti del positivismo evoluzionistico? Quali sono le correnti di pensiero che influenzarono Bergson?
Il positivismo era allora la filosofia di moda e attirava Bergson per la fedeltà ai fatti: su questo punto, Bergson continuò a dirsi positivista per tutta la vita, perché volle sempre costruire una filosofia fedele ai fatti. Tuttavia, Bergson si staccò dal positivismo ufficiale perché a suo avviso questo era fedele a certi fatti, ma non a tutti e dunque occorreva cambiare metodo per aderire alla realtà in tutti i suoi aspetti. Per quanto concerne l'aspetto dell'evoluzione, infine, verrà fuori con tutt'altri criteri nella parte centrale dell'attività di Bergson.
Prima che al Collège de France, che è un punto di arrivo molto prestigioso, Bergson insegnò all'École Normale, dove aveva del resto studiato, che aveva un indirizzo che si scostava abbastanza dall'orientamento ufficiale dalla Sorbona, un indirizzo più influenzato dalle correnti spiritualiste della filosofia francese, che in qualche modo si rifaceva per un verso a Pascal, per l'altro anche a Cartesio. Queste correnti, nell'800, erano state resuscitate da figure come Maine de Biran e - tra i professori di Bergson o comunque tra coloro che gravitavano intorno all'École Normale - come Lachelier. Grazie a questi e ad altri autori, lo spiritualismo rimase vivo anche nel periodo positivistico, influenzando senza dubbio Bergson. Poi, naturalmente, Bergson cominciò a camminare con le proprie gambe, a formulare teorie che, per un verso, risentivano dell'atmosfera del tempo al punto che furono accusate di essere dottrine impressionistiche e, per un altro verso, non volevano affatto esser tali. La popolarità di Bergson fu enorme. Tuttavia ci fu sempre una certa incomprensione del suo pensiero, e lo stesso Bergson riteneva di non essere capito in primo luogo dai filosofi ufficiali.
2. Nell'opera dal titolo Saggio sui dati immediati della coscienza Bergson tratta del tema della durata vissuta, della durata interiore. Che cosa significa propriamente questa espressione, durata, e qual è la prospettiva che Bergson intende adottare in questa opera?
La realtà più importante a cui il positivismo, secondo Bergson, non restava fedele è la realtà della nostra coscienza, la realtà vissuta, che si svolge appunto nel tempo reale e che egli chiama durata. Questa non corrisponde affatto, osserva in questo saggio, al tempo della meccanica, al tempo della scienza, cioè a quel tempo che si potrebbe anche restringere o allargare a piacimento, purché tutti i rapporti rimangano eguali e che è semplicemente un rapporto matematico. Il tempo vissuto è invece qualcosa di reale, una sostanza, la vera realtà per Bergson, ed è un cambiamento continuo, un cambiamento qualitativo. Il primo saggio di Bergson ha questa pretesa e per questo fu considerato impressionistico, fu accusato di non rendersi conto che l'ambizione di rimanere aderente ai dati immediati della coscienza era del tutto infondata, perché in realtà non esistono dati immediati della coscienza, la nostra coscienza è sempre già una elaborazione di una certa esperienza. Ma Bergson aveva in questo momento esattamente questa aspirazione e obbedisce a questa aspirazione con un'opera che per certi aspetti apre una strada nuova alla filosofia, per certi altri rimane impigliata in contrapposizioni troppo nette. Infatti, se è vero che il tempo vissuto è un continuo mutamento qualitativo, un passare da una qualità all'altra, c'è pur sempre un aspetto quantitativo della stessa durata che Bergson, in questo primo saggio, vuole dimenticare e che invece in seguito tornerà a considerare discutendo la teoria di Einstein in Durata e simultaneità, del 1922 (va da sé che si tratta di un'opera che poi egli stesso tolse dalla circolazione perché conteneva un curioso errore logico nell'interpretazione della relatività). In quest'opera, Bergson corregge la propria posizione sulla realtà interiore proprio sul punto della relazione che il tempo vissuto ha con le cose esterne. Egli ritiene, in questa seconda opera, che il tempo sia in qualche modo addossato allo spazio, laddove nella prima parlava semplicemente di un'opposizione fra il tempo dell'orologio che è soltanto spazio, non è altro che il muoversi, il cambiare posizione delle lancette, e il tempo vissuto, che invece è memoria che continuamente cambia in modo qualitativo.
3. Qual è la concezione bergsoniana della memoria in Materia e memoria, del 1896?
Questa concezione è stata talvolta avvicinata alla memoria rievocativa di Proust, anche se Proust negò che i suoi romanzi fossero romanzi bergsoniani, Proust, tra l'altro, era un paggetto d'onore al matrimonio di Bergson con la sua cugina. Ma veniamo al testo. Quest'opera del '96 è forse la più difficile di Bergson, la più complessa, quella che situa il suo sistema in una visione filosofica più completa della realtà. Nella visione bergsoniana, c'è la memoria pura, la memoria che rimane in noi anche se sepolta nell'inconscio, e c'è la memoria meccanica, che è invece come un meccanismo montato nel nostro organismo, quella per cui meccanicamente noi compiamo per abitudine certe operazioni senza ricordarci affatto di averle imparate. Contrariamente a quella meccanica, la memoria rievocativa è quella che ha luogo quando, per esempio, ricordiamo un episodio lontanissimo della nostra vita o anche vicino, ma più spesso lontano, che viene rivissuto improvvisamente, per esempio negli stati di dormiveglia, oppure in certi stati di rilassatezza, quando cioè viene meno quella che Bergson chiama «l'attenzione alla vita». Quando sono tutto preso dalle cose che devo fare, non ho questa memoria rievocativa, mi affido piuttosto alla meccanicità; anche quando parlo mi affido alla meccanica della parola che ho imparato da bambino, ma senza ricordare di averla imparata, ma quando l'attenzione alla vita si rilassa, allora possono riemergere in me questi ricordi, che del resto, se riemergessero sempre, mi bloccherebbero, mi impedirebbero di fare quel che devo fare perché sarei completamente distratto. La nostra vita cosciente è una interazione continua tra questi due aspetti della memoria: quella rievocativa, che in qualche modo é soffocata e che però condiziona il nostro modo di sentire e di pensare, e la memoria meccanica, che ci permette di operare concretamente nel mondo.
A mio parere il punto più interessante della metafisica di Bergson consiste nella distinzione tra una memoria viva, profonda e una memoria meccanica. Bergson propone una visione della realtà a diversi livelli, distinguendo un livello profondo e un livello superficiale della realtà. La realtà non si trova tutta allo stesso livello, e questo emergeva già nel primo saggio, il Saggio sui dati immediati della coscienza, quando notava che certi atti chiamati atti liberi, emergono in noi da uno strato profondo della nostra personalità, mentre gli atti consueti della vita sono appunto meccanici e occupano uno strato più superficiale. Non a caso, questa prima opera originariamente portava il titolo Tempo e libertà, un titolo che conserva ancora nella traduzione inglese e francese. Di qui, da questa problematica della libertà che si ha quando l'agire emerge dagli strati profondi della persona, si passa in Materia e memoria ad una descrizione più precisa di livelli di coscienza diversi, in cui la durata è più o meno concentrata negli strati profondi; è come se il tempo fosse tutto al tempo passato e presente ma anche, in qualche modo, a quello futuro, fosse tutto racchiuso in un punto, quasi si trattasse di una eternità. Quando l'atto - in una condizione che potremmo impropriamente definire ideale - emerge da questa profondità non è più condizionato dai suoi antecedenti, dalle sue cause precedenti, perché il precedente e il susseguente sono come uniti insieme: l'atto nasce dalla mia personalità complessiva ed è un atto libero, anche se, appunto, secondo Bergson questa è una condizione fortunata e rara, che si attua solo in atti in qualche modo creativi.
4. La conferenza dal titolo Introduzione alla Metafisica si apre con una distinzione tra analisi e intuizione. Qual è il senso di questa distinzione in Bergson?
Bisogna riportarlo all'aspirazione di Bergson di rimanere fedele a modi d'essere degli oggetti che studiava e alla distinzione, che nella Introduzione alla Metafisica viene in piena luce, dei livelli di durata o dei livelli di realtà. L'analisi, cioè il pensiero concettuale, è aderente agli strati chiamiamoli superficiali della realtà, a quelli in cui noi ci troviamo ad agire quando operiamo, mettiamo in rapporto le cose (o anche le persone, quando in fondo le trattiamo come cose), le avviciniamo, le allontaniamo, le agganciamo, le sganciamo. Per tutti questi casi, è adatta l'analisi che si serve dei concetti, ma quando scendiamo a quei livelli più concentrati di cui parlavo prima, allora l'analisi è falsata, perché continua ad isolare artificialmente pezzi, elementi, cose, mentre tutto, a questo livello, non è confuso ma fuso insieme. Così, per arrivare ad intendere questo livello di realtà, occorre quello che Bergson chiama intuizione, che coglie appunto la realtà nel suo profondo, e per esprimere questa intuizione Bergson afferma che è meglio servirsi di immagini ora poetiche, ora anche geometriche, ma usate consapevolmente come immagini, perché se invece ho la pretesa di adoperare concetti, mi illudo di fare un discorso proprio, un discorso aderente a quel tipo di realtà, mentre faccio un discorso che è aderente ad un altro tipo di realtà. La metafora (che significa trasporto, traslato da un livello ad un altro) e anche l'immagine parlano di cose spaziali, di cose esteriori, ma con la consapevolezza di una inevitabile improprietà di linguaggio.
Questo primato dell'immagine rispetto al concetto ha una valenza anche nella visione del linguaggio bergsoniano. Il linguaggio, secondo Bergson, è tutto modellato sull'azione, cioè serve per gli scopi dell'azione, e allora il linguaggio divide e collega come fa precisamente il pensiero concettuale; esso, però, non coglie la realtà nel suo profondo, dove non ci sono cose, elementi staccati da collegare, ma c'è una unità globale. In tal modo, secondo i suoi critici, Bergson è caduto in una sorta di anti-intellettualismo. Da parte sua, Bergson non riconobbe affatto l'opportunità e la fondatezza di questa critica, perché lo strumento di cui si serve anche per descrivere la realtà profonda è pur sempre uno strumento concettuale, uno strumento linguistico. Il punto nodale, a suo avviso, è che quando si usa a tal fine lo strumento linguistico lo si deve fare con la consapevolezza, sia in chi parla che in chi ascolta, che questo strumento si situa ad un livello metafisico o ontologico diverso dall'oggetto che vuole esprimere, che c'è una distanza tra i due livelli. Heidegger, al riguardo, avrebbe parlato di differenza ontologica tra il livello dove si situa il linguaggio e i suoi concetti ed il livello dove si situa la realtà profonda che Bergson vuole descrivere. C'è, diciamo così, un movimento verticale tra un livello e l'altro di ciò che Bergson studia già nell'Introduzione alla Metafisica e in altri saggi che trattano della vita psicologica, ma che cercano, nel contempo, di approfondire le radici metafisiche, per così dire, di questi aspetti psicologici del vissuto.
5. Può soffermarsi sulle implicazioni del primato dell'immagine rispetto al concetto?
Questa teoria sottomise Bergson all'accusa di anti-intellettualismo, quasi avesse negato il potere dell'intelligenza di penetrare la realtà profonda. In realtà, Bergson non volle mai accettare questa critica; il problema è, secondo Bergson, che il linguaggio è tutto modellato sulle cose esteriori, le quali a loro volta sono viste da noi in funzione dell'uso che vogliamo farne. Per esempio, qual è la ragione per cui noi dividiamo un oggetto dall'altro, dividiamo la sedia dal pavimento, dalla lampada e così via? È che noi queste cose le usiamo separatamente in funzione dell'uso che dobbiamo farne. Oppure perché una parte della sedia si distingue dall'altra? Perché una mi serve per appoggiare le braccia, l'altra mi serve per appoggiare la schiena, e così distinguo i braccioli, lo schienale e così via. Ma la realtà profonda non è questa. Prendiamo ad esempio la realtà di un sentimento profondo che posso avere. Questo sentimento non è soggetto alla mia manipolazione come le cose; allora, quando voglio parlare di questo sentimento sono costretto per forza di cose a usare delle immagini, delle forme improprie. Io dico, per esempio, che il sentimento è profondo, ma che vuol dire profondo: che sta sottoterra? No, evidentemente. Il sentimento non è profondo in questo senso, ma uso la metafora "profondo" per esprimere un certo carattere del sentimento e potrei usare altre metafore, come il sentimento violento, il sentimento dolce: sono costretto ad usare delle immagini perché non ho un linguaggio aderente a questo tipo di realtà, perché il linguaggio è fatto per gli usi pratici. Sta qui, dunque, la ragione del preteso anti-intellettualismo, che però Bergson si rifiuta di riconoscere, perché lui stesso, nel trattare di queste cose, non fa altro che usare il linguaggio ed usarlo con l'intelligenza. Ciò che vi unisce, è la consapevolezza di questa distanza tra l'oggetto descritto e il mondo dello strumento adoperato per descriverlo.
6. Le sembra che l'opposizione tra intuizione e intelligenza sia più un problema di terminologia che un problema sostanziale?
È anzitutto un problema di termini perché "intelligence", nel francese moderno, assume un significato lontanissimo da quello che aveva nel latino ancora medioevale. Ma al di là di questo, che è abbastanza scontato, il fatto è che il problema non è soltanto di ordine terminologico. Questa intelligenza, per Bergson, ha uno scopo essenzialmente pragmatico, cioè di utilità, però, almeno nell'uomo, che è l'animale intelligente per definizione, ha anche una funzione di rivelazione, in qualche modo, del profondo, purché si connetta con quelle che Bergson chiama intuizioni. Ciò significa che non c'è solo la contrapposizione tra un sentire immediato, come sembrava nella prima opera, e un parlare rivolto agli scopi pragmatici, c'è anche, soprattutto nell'uomo di genio, nel filosofo, nel poeta o comunque nell'artista in genere, un pescare, una capacità, per riprendere una metafora dello stesso Bergson, di lanciare colpi di sonda nella durata pura, e cioè nel profondo, e tirare in superficie dei reperti, a volte dei sentimenti, delle sensazioni che comunque poi si esprimono in parole, oppure in immagini figurative, o in musica, o filosoficamente. Da questo punto di vista, infatti, secondo Bergson c'è una vicinanza tra l'autentica filosofia e l'arte, perché trasporta nelle forme esterne, esprime nelle forme esterne qualcosa che in sé non sarebbe esprimibile.
Il positivismo era allora la filosofia di moda e attirava Bergson per la fedeltà ai fatti: su questo punto, Bergson continuò a dirsi positivista per tutta la vita, perché volle sempre costruire una filosofia fedele ai fatti. Tuttavia, Bergson si staccò dal positivismo ufficiale perché a suo avviso questo era fedele a certi fatti, ma non a tutti e dunque occorreva cambiare metodo per aderire alla realtà in tutti i suoi aspetti. Per quanto concerne l'aspetto dell'evoluzione, infine, verrà fuori con tutt'altri criteri nella parte centrale dell'attività di Bergson.
Prima che al Collège de France, che è un punto di arrivo molto prestigioso, Bergson insegnò all'École Normale, dove aveva del resto studiato, che aveva un indirizzo che si scostava abbastanza dall'orientamento ufficiale dalla Sorbona, un indirizzo più influenzato dalle correnti spiritualiste della filosofia francese, che in qualche modo si rifaceva per un verso a Pascal, per l'altro anche a Cartesio. Queste correnti, nell'800, erano state resuscitate da figure come Maine de Biran e - tra i professori di Bergson o comunque tra coloro che gravitavano intorno all'École Normale - come Lachelier. Grazie a questi e ad altri autori, lo spiritualismo rimase vivo anche nel periodo positivistico, influenzando senza dubbio Bergson. Poi, naturalmente, Bergson cominciò a camminare con le proprie gambe, a formulare teorie che, per un verso, risentivano dell'atmosfera del tempo al punto che furono accusate di essere dottrine impressionistiche e, per un altro verso, non volevano affatto esser tali. La popolarità di Bergson fu enorme. Tuttavia ci fu sempre una certa incomprensione del suo pensiero, e lo stesso Bergson riteneva di non essere capito in primo luogo dai filosofi ufficiali.
2. Nell'opera dal titolo Saggio sui dati immediati della coscienza Bergson tratta del tema della durata vissuta, della durata interiore. Che cosa significa propriamente questa espressione, durata, e qual è la prospettiva che Bergson intende adottare in questa opera?
La realtà più importante a cui il positivismo, secondo Bergson, non restava fedele è la realtà della nostra coscienza, la realtà vissuta, che si svolge appunto nel tempo reale e che egli chiama durata. Questa non corrisponde affatto, osserva in questo saggio, al tempo della meccanica, al tempo della scienza, cioè a quel tempo che si potrebbe anche restringere o allargare a piacimento, purché tutti i rapporti rimangano eguali e che è semplicemente un rapporto matematico. Il tempo vissuto è invece qualcosa di reale, una sostanza, la vera realtà per Bergson, ed è un cambiamento continuo, un cambiamento qualitativo. Il primo saggio di Bergson ha questa pretesa e per questo fu considerato impressionistico, fu accusato di non rendersi conto che l'ambizione di rimanere aderente ai dati immediati della coscienza era del tutto infondata, perché in realtà non esistono dati immediati della coscienza, la nostra coscienza è sempre già una elaborazione di una certa esperienza. Ma Bergson aveva in questo momento esattamente questa aspirazione e obbedisce a questa aspirazione con un'opera che per certi aspetti apre una strada nuova alla filosofia, per certi altri rimane impigliata in contrapposizioni troppo nette. Infatti, se è vero che il tempo vissuto è un continuo mutamento qualitativo, un passare da una qualità all'altra, c'è pur sempre un aspetto quantitativo della stessa durata che Bergson, in questo primo saggio, vuole dimenticare e che invece in seguito tornerà a considerare discutendo la teoria di Einstein in Durata e simultaneità, del 1922 (va da sé che si tratta di un'opera che poi egli stesso tolse dalla circolazione perché conteneva un curioso errore logico nell'interpretazione della relatività). In quest'opera, Bergson corregge la propria posizione sulla realtà interiore proprio sul punto della relazione che il tempo vissuto ha con le cose esterne. Egli ritiene, in questa seconda opera, che il tempo sia in qualche modo addossato allo spazio, laddove nella prima parlava semplicemente di un'opposizione fra il tempo dell'orologio che è soltanto spazio, non è altro che il muoversi, il cambiare posizione delle lancette, e il tempo vissuto, che invece è memoria che continuamente cambia in modo qualitativo.
3. Qual è la concezione bergsoniana della memoria in Materia e memoria, del 1896?
Questa concezione è stata talvolta avvicinata alla memoria rievocativa di Proust, anche se Proust negò che i suoi romanzi fossero romanzi bergsoniani, Proust, tra l'altro, era un paggetto d'onore al matrimonio di Bergson con la sua cugina. Ma veniamo al testo. Quest'opera del '96 è forse la più difficile di Bergson, la più complessa, quella che situa il suo sistema in una visione filosofica più completa della realtà. Nella visione bergsoniana, c'è la memoria pura, la memoria che rimane in noi anche se sepolta nell'inconscio, e c'è la memoria meccanica, che è invece come un meccanismo montato nel nostro organismo, quella per cui meccanicamente noi compiamo per abitudine certe operazioni senza ricordarci affatto di averle imparate. Contrariamente a quella meccanica, la memoria rievocativa è quella che ha luogo quando, per esempio, ricordiamo un episodio lontanissimo della nostra vita o anche vicino, ma più spesso lontano, che viene rivissuto improvvisamente, per esempio negli stati di dormiveglia, oppure in certi stati di rilassatezza, quando cioè viene meno quella che Bergson chiama «l'attenzione alla vita». Quando sono tutto preso dalle cose che devo fare, non ho questa memoria rievocativa, mi affido piuttosto alla meccanicità; anche quando parlo mi affido alla meccanica della parola che ho imparato da bambino, ma senza ricordare di averla imparata, ma quando l'attenzione alla vita si rilassa, allora possono riemergere in me questi ricordi, che del resto, se riemergessero sempre, mi bloccherebbero, mi impedirebbero di fare quel che devo fare perché sarei completamente distratto. La nostra vita cosciente è una interazione continua tra questi due aspetti della memoria: quella rievocativa, che in qualche modo é soffocata e che però condiziona il nostro modo di sentire e di pensare, e la memoria meccanica, che ci permette di operare concretamente nel mondo.
A mio parere il punto più interessante della metafisica di Bergson consiste nella distinzione tra una memoria viva, profonda e una memoria meccanica. Bergson propone una visione della realtà a diversi livelli, distinguendo un livello profondo e un livello superficiale della realtà. La realtà non si trova tutta allo stesso livello, e questo emergeva già nel primo saggio, il Saggio sui dati immediati della coscienza, quando notava che certi atti chiamati atti liberi, emergono in noi da uno strato profondo della nostra personalità, mentre gli atti consueti della vita sono appunto meccanici e occupano uno strato più superficiale. Non a caso, questa prima opera originariamente portava il titolo Tempo e libertà, un titolo che conserva ancora nella traduzione inglese e francese. Di qui, da questa problematica della libertà che si ha quando l'agire emerge dagli strati profondi della persona, si passa in Materia e memoria ad una descrizione più precisa di livelli di coscienza diversi, in cui la durata è più o meno concentrata negli strati profondi; è come se il tempo fosse tutto al tempo passato e presente ma anche, in qualche modo, a quello futuro, fosse tutto racchiuso in un punto, quasi si trattasse di una eternità. Quando l'atto - in una condizione che potremmo impropriamente definire ideale - emerge da questa profondità non è più condizionato dai suoi antecedenti, dalle sue cause precedenti, perché il precedente e il susseguente sono come uniti insieme: l'atto nasce dalla mia personalità complessiva ed è un atto libero, anche se, appunto, secondo Bergson questa è una condizione fortunata e rara, che si attua solo in atti in qualche modo creativi.
4. La conferenza dal titolo Introduzione alla Metafisica si apre con una distinzione tra analisi e intuizione. Qual è il senso di questa distinzione in Bergson?
Bisogna riportarlo all'aspirazione di Bergson di rimanere fedele a modi d'essere degli oggetti che studiava e alla distinzione, che nella Introduzione alla Metafisica viene in piena luce, dei livelli di durata o dei livelli di realtà. L'analisi, cioè il pensiero concettuale, è aderente agli strati chiamiamoli superficiali della realtà, a quelli in cui noi ci troviamo ad agire quando operiamo, mettiamo in rapporto le cose (o anche le persone, quando in fondo le trattiamo come cose), le avviciniamo, le allontaniamo, le agganciamo, le sganciamo. Per tutti questi casi, è adatta l'analisi che si serve dei concetti, ma quando scendiamo a quei livelli più concentrati di cui parlavo prima, allora l'analisi è falsata, perché continua ad isolare artificialmente pezzi, elementi, cose, mentre tutto, a questo livello, non è confuso ma fuso insieme. Così, per arrivare ad intendere questo livello di realtà, occorre quello che Bergson chiama intuizione, che coglie appunto la realtà nel suo profondo, e per esprimere questa intuizione Bergson afferma che è meglio servirsi di immagini ora poetiche, ora anche geometriche, ma usate consapevolmente come immagini, perché se invece ho la pretesa di adoperare concetti, mi illudo di fare un discorso proprio, un discorso aderente a quel tipo di realtà, mentre faccio un discorso che è aderente ad un altro tipo di realtà. La metafora (che significa trasporto, traslato da un livello ad un altro) e anche l'immagine parlano di cose spaziali, di cose esteriori, ma con la consapevolezza di una inevitabile improprietà di linguaggio.
Questo primato dell'immagine rispetto al concetto ha una valenza anche nella visione del linguaggio bergsoniano. Il linguaggio, secondo Bergson, è tutto modellato sull'azione, cioè serve per gli scopi dell'azione, e allora il linguaggio divide e collega come fa precisamente il pensiero concettuale; esso, però, non coglie la realtà nel suo profondo, dove non ci sono cose, elementi staccati da collegare, ma c'è una unità globale. In tal modo, secondo i suoi critici, Bergson è caduto in una sorta di anti-intellettualismo. Da parte sua, Bergson non riconobbe affatto l'opportunità e la fondatezza di questa critica, perché lo strumento di cui si serve anche per descrivere la realtà profonda è pur sempre uno strumento concettuale, uno strumento linguistico. Il punto nodale, a suo avviso, è che quando si usa a tal fine lo strumento linguistico lo si deve fare con la consapevolezza, sia in chi parla che in chi ascolta, che questo strumento si situa ad un livello metafisico o ontologico diverso dall'oggetto che vuole esprimere, che c'è una distanza tra i due livelli. Heidegger, al riguardo, avrebbe parlato di differenza ontologica tra il livello dove si situa il linguaggio e i suoi concetti ed il livello dove si situa la realtà profonda che Bergson vuole descrivere. C'è, diciamo così, un movimento verticale tra un livello e l'altro di ciò che Bergson studia già nell'Introduzione alla Metafisica e in altri saggi che trattano della vita psicologica, ma che cercano, nel contempo, di approfondire le radici metafisiche, per così dire, di questi aspetti psicologici del vissuto.
5. Può soffermarsi sulle implicazioni del primato dell'immagine rispetto al concetto?
Questa teoria sottomise Bergson all'accusa di anti-intellettualismo, quasi avesse negato il potere dell'intelligenza di penetrare la realtà profonda. In realtà, Bergson non volle mai accettare questa critica; il problema è, secondo Bergson, che il linguaggio è tutto modellato sulle cose esteriori, le quali a loro volta sono viste da noi in funzione dell'uso che vogliamo farne. Per esempio, qual è la ragione per cui noi dividiamo un oggetto dall'altro, dividiamo la sedia dal pavimento, dalla lampada e così via? È che noi queste cose le usiamo separatamente in funzione dell'uso che dobbiamo farne. Oppure perché una parte della sedia si distingue dall'altra? Perché una mi serve per appoggiare le braccia, l'altra mi serve per appoggiare la schiena, e così distinguo i braccioli, lo schienale e così via. Ma la realtà profonda non è questa. Prendiamo ad esempio la realtà di un sentimento profondo che posso avere. Questo sentimento non è soggetto alla mia manipolazione come le cose; allora, quando voglio parlare di questo sentimento sono costretto per forza di cose a usare delle immagini, delle forme improprie. Io dico, per esempio, che il sentimento è profondo, ma che vuol dire profondo: che sta sottoterra? No, evidentemente. Il sentimento non è profondo in questo senso, ma uso la metafora "profondo" per esprimere un certo carattere del sentimento e potrei usare altre metafore, come il sentimento violento, il sentimento dolce: sono costretto ad usare delle immagini perché non ho un linguaggio aderente a questo tipo di realtà, perché il linguaggio è fatto per gli usi pratici. Sta qui, dunque, la ragione del preteso anti-intellettualismo, che però Bergson si rifiuta di riconoscere, perché lui stesso, nel trattare di queste cose, non fa altro che usare il linguaggio ed usarlo con l'intelligenza. Ciò che vi unisce, è la consapevolezza di questa distanza tra l'oggetto descritto e il mondo dello strumento adoperato per descriverlo.
6. Le sembra che l'opposizione tra intuizione e intelligenza sia più un problema di terminologia che un problema sostanziale?
È anzitutto un problema di termini perché "intelligence", nel francese moderno, assume un significato lontanissimo da quello che aveva nel latino ancora medioevale. Ma al di là di questo, che è abbastanza scontato, il fatto è che il problema non è soltanto di ordine terminologico. Questa intelligenza, per Bergson, ha uno scopo essenzialmente pragmatico, cioè di utilità, però, almeno nell'uomo, che è l'animale intelligente per definizione, ha anche una funzione di rivelazione, in qualche modo, del profondo, purché si connetta con quelle che Bergson chiama intuizioni. Ciò significa che non c'è solo la contrapposizione tra un sentire immediato, come sembrava nella prima opera, e un parlare rivolto agli scopi pragmatici, c'è anche, soprattutto nell'uomo di genio, nel filosofo, nel poeta o comunque nell'artista in genere, un pescare, una capacità, per riprendere una metafora dello stesso Bergson, di lanciare colpi di sonda nella durata pura, e cioè nel profondo, e tirare in superficie dei reperti, a volte dei sentimenti, delle sensazioni che comunque poi si esprimono in parole, oppure in immagini figurative, o in musica, o filosoficamente. Da questo punto di vista, infatti, secondo Bergson c'è una vicinanza tra l'autentica filosofia e l'arte, perché trasporta nelle forme esterne, esprime nelle forme esterne qualcosa che in sé non sarebbe esprimibile.
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