IV MEDITAZIONE (b)
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IV MEDITAZIONE (b)
12. Se mi astengo dal dare un giudizio, quando non concepisco in maniera abbastanza chiara e distinta che cosa sia vero, è chiaro che agisco bene e non mi sbaglio. Ma se affermo o nego, allora non mi servo bene della libertà di arbitrio; e se mi [60] volgerò a quella parte che è falsa, sicuramente sbaglierò; qualora invece abbraccerò la parte contraria, certo mi troverò nella verità per caso, ma non sarò perciò privo di colpa, perché secondo il lume naturale è chiaro che la comprensione dell'intelletto deve sempre precedere la determinazione della volontà. Ed in questo uso non corretto del libero arbitrio c'è quella privazione che costituisce la forma dell'errore; la privazione, dico, si trova nella stessa operazione per quanto dipende da me, ma non nella facoltà che ho ricevuto da Dio, e neanche nella operazione per quanto dipende da lui. 13. E d'altra parte non ho alcun motivo di lamentarmi, per il fatto che Dio non mi ha dato una più ampia capacità di comprendere ossia un lume naturale maggiore di quello che mi ha dato, perché è secondo la natura di un intelletto finito il non capire molto, ed è secondo la natura di un intelletto creato l'essere limitato; c'è invece motivo perché io lo ringrazi per quanto mi ha donato pur non dovendomi nulla, ma non c'è motivo che io ritenga di essere stato privato da lui di tali cose, o che egli mi abbia tolto ciò che non mi ha dato. 14. Non ho neanche motivo di lamentarmi, per il fatto che mi ha dato una volontà più ampia dell'intelletto; poiché infatti la volontà consiste soltanto in una cosa, e, in quanto indivisibile, non sembra che la sua natura comporti che qualcosa le possa sottratto; e certo quanto più è ampia, tanta maggiore gratitudine devo a chi me l'ha data. 15. Ed infine neanche mi devo lamentare, del fatto che Dio concorra con me a suscitare quegli atti di volontà o quei giudizi nei quali mi sbaglio; giacché i suoi atti sono del tutto veri e buoni, in quanto dipendono da Dio, ed in me — in quanto li posso formare — c'è maggior perfezione che se non potessi farlo. La privazione poi, nella quale consiste il solo motivo [61] formale della falsità e della colpa, non ha bisogno di nessun aiuto di Dio, perché non è una cosa reale, e se viene riferita a Dio come causa, essa non deve essere chiamata privazione, ma solo una negazione. Infatti certo non costituisce alcuna imperfezione in Dio il fatto che mi ha dato la libertà di assentire o di non assentire ad alcune cose, delle quali non ha posto nel mio intelletto una conoscenza chiara e distinta, ma è fuori di dubbio che in me costituisce imperfezione il non fare un corretto uso di questa libertà e applicare il mio giudizio a quelle cose che non comprendo bene. Osservo tuttavia che facilmente Dio avrebbe potuto fare in modo che tuttavia non sbagliassi mai, pur restando libero e in possesso di una conoscenza limitata; se invero avesse posto nel mio intelletto la percezione chiara e distinta di tutte le cose sulle quali avrei dovuto esprimere un giudizio; o anche soltanto se avesse impresso in maniera così ferma nella mia memoria — così da non potermene mai dimenticare — che non dovessi mai esprimere un giudizio su alcuna cosa che non potessi comprendere in maniera chiara e distinta. E facilmente comprendo che io, in quanto mi consideri come un tutto a sé, sarei stato più perfetto di quello che sono ora, se fossi stato fatto tale capace di non sbagliare da Dio. Ma non posso negare che in qualche modo una perfezione più grande vi sia in tutta l'universalità della realtà — per il fatto che alcune sue parti non sono immuni dagli errori, ed altre invece lo sono — piuttosto che se tutte fossero assolutamente simili. Non ho nessun diritto di lamentarmi che Dio abbia voluto che nel mondo sostenessi un tale ruolo, che non è il più grande e il più perfetto di tutti. 16. Inoltre, sebbene non possa tenermi lontano dagli errori in quel primo modo che deriva dalla evidente percezione di tutte quelle cose sulle quali si deve deliberare, posso tuttavia tenermene lontano in quell'altro modo, che dipende solo dal fatto che [62] mi ricordi — ogni qual volta non è chiara la verità di una cosa — che mi devo astenere dall'esprimere un giudizio; infatti, sebbene esperimenti che in me c'è una debolezza della mia natura tale che non posso stare sempre legato ad una medesima conoscenza, posso tuttavia con una meditazione attenta e più volte ripetuta fare in modo che mi ricordi di tale debolezza, ogni qual volta ve ne sia l'utilità, e così acquisti una certa consuetudine a non sbagliare. 17. Considerato che la più grande ed evidente perfezione dell'uomo consiste in questo, non mi sembra di aver tratto poco vantaggio dalla meditazione di oggi, poiché ho investigato la causa dell'errore e della falsità. Certamente non vi può essere una causa diversa da quella che ho spiegato; infatti ogni qual volta trattengo la volontà nell'esprimere i giudizi in maniera tale che si applichi soltanto a quelle cose che le vengono rappresentate in maniera chiara e distinta dall'intelletto, non può certo accadere che io sbagli, poiché ogni concezione chiara e distinta senza dubbio è qualcosa di reale e positivo, e quindi non può venire dal nulla, ma ha necessariamente Dio come autore — Dio dico, quell'ente sommamente perfetto, che non può essere assolutamente fallace. E perciò fuori da ogni dubbio è vera. Oggi non ho imparato soltanto da cosa mi devo guardare per non ingannarmi mai, ma anche a che cosa devo mirare per raggiungere la verità; sicuramente la raggiungerò, se darò retta soltanto alle cose che comprendo perfettamente, e le saprò distinguere dalle altre, di cui ho una nozione più confusa ed oscura. Per il futuro mi adopererò diligentemente a raggiungere questo scopo.
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